“Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di briganti –ANTONIO GRAMSCI -”

venerdì 31 gennaio 2014

Rispetto degli Accordi sulla Mobilità Nazionale - La Commissione Lavoratori Poste Italiane del Partito del Sud lancia una petizione su Change.org




La Commissione Lavoratori Poste Italiane del Partito del Sud lancia una petizione su Change.org e una raccolta firme nazionale. 

I lavoratori Poste Italiane richiedono all'Azienda il rispetto e lo sblocco degli accordi sulla prossima mobilità , fermo ormai da tre anni,  nella speranza di una rapido ritorno alle famiglie e alla propria terra.



Firmiamo e diffondiamo questa petizione, che riguarda principalmente i diritti negati ai lavoratori del Sud, e sosteniamo la loro lotta che è anche la nostra !! 




PER FIRMARE LA PETIZIONE SU CHANGE.ORG: https://www.change.org/it/petizioni/poste-italiane-spa-rispetto-degli-accordi-e-mobilit%C3%A0-su-base-volontaria


IL TESTO DELLA PETIZIONE


Rispetto degli Accordi e Mobilità su base volontaria


"Quando uno lascia un paese, tutte le cose acquistano prima della partenza un valore straordinario di ricordo, e ci fanno pregustare la lontananza e la nostalgia."
(Corrado Alvaro).


Il Partito del Sud, spinto dalle numerose richieste di iscritti e simpatizzanti dipendenti di Poste Italiane, esprime la sua profonda delusione su come l’Azienda Poste affronta il tema delle mobilità Nazionale, pressoché ferma da ormai tre anni per i semplici dipendenti, ma stranamente attiva solo per alcuni in base a parametri personalizzati. Lavoratori postali costretti, all’atto dell’assunzione, dall’azienda, ad accettare destinazioni lontane oltre mille chilometri, con aggravi di spese di trasporto, e di disagi familiari, che vanno a limare il già povero stipendio.

Chiediamo quindi a Poste Italiane il rispetto degli accordi e l’attuazione immediata della prossima mobilità che non deve essere una “fabbrica di sogni”, ne' uno strumento aziendale usato per impedire la malattia dei dipendenti, ma uno strumento reale aperto a tutti per una reale speranza di avvicinamento al proprio nucleo familiare e alla propria terra.

PARTITO DEL SUD – COMMISSIONE LAVORATORI POSTE ITALIANE


giovedì 30 gennaio 2014

La legge Pica del 1863, ovvero la “licenza di uccidere i meridionali”

di Giovanni Pecora            

Nola, 10 settembre 1863, un bersagliere mostra il cadavere del "brigante" Nicola Napolitano dopo la fucilazione e le sevizie

Secondo il re sabaudo Vittorio Emanuele II dall’Italia meridionale si “alzava un grido di dolore” che lui, notoriamente di buon cuore e generoso, non poteva non ascoltare. E così mandò avanti Garibaldi con i suoi Mille improbabili liberatori che, a suo avviso, sarebbero bastati per accendere il fuoco della ribellione al tiranno Borbone.
Ed in effetti all’inizio fu così, e molti cittadini di idee liberali accolsero Garibaldi come un angelo liberatore, mentre molti ufficiali dell’esercito borbonico, precedentemente comprati dall’opera di intelligence posta in essere segretamente da Cavour, facevano in modo che i soldati di re Francesco II non ostacolassero in alcun modo l’invasione e gli insorti.
Bastarono poche settimane per far comprendere ai liberali ed al popolo meridionale che Garibaldi non veniva a portare la libertà, ma semplicemente a sostituire un re con un altro re. Ma ormai era troppo tardi, perchè a consolidare la conquista del Regno delle Due Sicilie erano già arrivati i bersaglieri ed i fanti dell’esercito piemontese, che prima sparavano e poi controllavano chi avessero davanti, fossero anche donne, bambini o vecchi inermi.
Per la retorica risorgimentale i “fratelli d’Italia” ci abbracciavano per liberarci dal medioevo borbonico. Francamente già posta in questi termini sembrerebbe più un’amara barzelletta che altro, visto che per mille versi il Regno delle Due Sicilie era almeno vent’anni avanti rispetto al resto d’Italia, Piemonte compreso.
E questo era ed è sotto gli occhi di tutti. Basta guardare le pubblicazioni del tempo ed i documenti originali, e non i libri falsificati dalla retorica risorgimentale.
Ma a volte, proprio per evitare che appaia un racconto di parte, è addirittura sufficiente mostrare I FATTI, oppure ciò che scrivono e dicono testi che non possono certamente essere definiti “filo-meridionalisti”.

I FATTI
Nel 1863, dopo già ben due anni erano passati di presunti “baci ed abbracci” con i meridionali liberati, il clima era talmente “idilliaco” qui al Sud che il governo neo-italiano ha dovuto far promulgare al re sabaudo lo stato d’assedio per le regioni meridionali, autorizzando così la sospensione delle leggi civili ed il passaggio al codice penale di guerra.
Si promulga così la cosiddetta “Legge Pica“, dal nome del deputato abrujzzese che la formulò, che per oltre due anni trasformò le regioni meridionali in un immenso campo di combattimento, o meglio ancora in un enorme lager dentro il quale i soldati del re sabaudo, i “piemontesi”, con la scusa della lotta al brigantaggio uccisero, stuprarono, squartarono, sgozzarono, misero a ferro e fuoco interi paesi causando migliaia e migliaia di morti innocenti.
E ci vollero ben ancora almeno sette anni per piegare definitivamente tutte le sacche di resistenza dei partigiani lealisti al re Borbone sulle montagne abruzzesi, lucane, campane, pugliesi, calabresi, e siciliane.
Basterebbe questo per capire l’enorme montagna di menzogne che ha accompagnato per 150 anni la storia del risorgimento italiano.
Altro che “fratelli d’Italia”…
Poi ci testimonianze – involontarie – che veramente sono al di sopra di ogni sospetto, come ad esempio quelle tratte dal sito dell’Arma dei Carabinieri, “fedelissima” per definizione al re savoia.
Ecco cosa si legge nel sito ufficiale dell’Arma:
La legge Pica permise la repressione senza limiti di qualunque resistenza: si trattava, in pratica, dell’applicazione dello stato d’assedio interno. Senza bisogno di un processo si potevano mettere per un anno agli arresti domiciliari i vagabondi, le persone senza occupazione fissa, i sospetti fiancheggiatori di camorristi e briganti. Nelle province dichiarate infestate da briganti ogni banda armata di più di tre persone, complici inclusi, poteva essere giudicata da una corte marziale. Naturalmente alla sospensione dei diritti costituzionali (il concetto di diritti umani di fatto ancora non esisteva) si accompagnarono misure come la punizione collettiva per i delitti dei singoli e le rappresaglie contro i villaggi“.

Non c’è bisogno di alcun commento, mi pare.

Vediamo allora cosa invece scrive Wikipedia, l’enciclopedia online, a proposito della legge Pica (http://it.wikipedia.org/wiki/Legge_Pica):
“La legge 1409 del 1863, nota come legge Pica, dal nome del suo promotore, il deputato abruzzese Giuseppe Pica, fu approvata dal parlamento della Destra storica e fu promulgata da Vittorio Emanuele II, il 15 agosto di quell’anno. Presentata come “mezzo eccezionale e temporaneo di difesa”, la legge fu più volte prorogata ed integrata da successive modificazioni, rimanendo in vigore fino al 31 dicembre 1865. Sua finalità primaria era porre rimedio al brigantaggio postunitario nel Mezzogiorno, attraverso la repressione di qualunque fenomeno di resistenza.

Contesto preesitente
Il provvedimento legislativo seguiva, di circa dodici mesi, la proclamazione, da parte del governo, dello stato d’assedio nelle province meridionali, avvenuta nell’estate del 1862. Con lo stato d’assedio si era voluto concentrare il potere nelle mani dell’autorità militare al fine di reprimere l’attività di resistenza armata: coloro i quali venivano catturati con l’accusa di brigantaggio, fossero essi sospettati di essere ribelli o parenti di ribelli, potevano essere passati per le armi dall’esercito, senza formalità di alcun genere.
Nella seduta parlamentare del 29 aprile 1862, il senatore Giuseppe Ferrari affermava: «Non potete negare che intere famiglie vengono arrestate senza il minimo pretesto; che vi sono, in quelle province, degli uomini assolti dai giudici e che sono ancora in carcere. Si è introdotta una nuova legge in base alla quale ogni uomo preso con le armi in pugno viene fucilato. Questa si chiama guerra barbarica, guerra senza quartiere. Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue, non so più come esprimermi».
Per contro, coloro che riuscivano ad evitare il plotone di esecuzione non potevano più essere processati dai tribunali militari e divenivano soggetti alla giustizia ordinaria, che, in base alle variazioni apportate, nel 1859, al codice penale piemontese, non prevedeva più l’applicazione della pena di morte per i reati politici[5]. La legge Pica, dunque, sospendendo, in sostanza, la garanzia dei diritti costituzionali contemplati dallo statuto Albertino, aveva l’obiettivo di colmare questo “vuoto”, sottraendo i sospettati di brigantaggio ai tribunali civili in favore di quelli militari.

Brigantaggio e camorrismo
La legge Pica, il cui titolo era Procedura per la repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle Provincie infette, si attesta come la prima disposizione normativa dello stato unitario in cui viene contemplato il reato di camorrismo[6]. Oltre ad introdurre il reato di brigantaggio, infatti, la legge 1409/1863, disciplinò in tema di ordine pubblico riferendosi anche alle azioni delittuose commesse della nascente criminalità organizzata. Inoltre, la legge Pica introdusse, per la prima volta, la pena del domicilio coatto, ponendosi, per questi due aspetti, come antesignana dell’ampia produzione normativa connessa ai reati di mafia che caratterizzerà il XX secolo. Legiferando, però, su proto-mafie e brigantaggio attraverso un’unica norma, il parlamento italiano accostava impropriamente il mero banditismo all’attività di brigantaggio politico propria della resistenza partigiana antiunitaria e legittimista.

Le disposizioni normative
In applicazione della legge Pica, dunque, venivano istituiti sul territorio delle province definite come “infestate dal brigantaggio” (individuate dal Regio decreto del 20 agosto 1863) i tribunali militari, ai quali passava la competenza in materia di reati di brigantaggio.
Il nuovo corpo normativo stabiliva che poteva essere qualificato come brigante (e, dunque, giudicato dalla corte marziale) chiunque fosse stato trovato armato in un gruppo di almeno tre persone.
Veniva concessa la facoltà di istituire delle milizie volontarie per la caccia ai briganti ed erano stabiliti dei premi in danaro per ogni brigante arrestato o ucciso.
Le pene comminate ai condannati andavano dall’incarcerazione, ai lavori forzati, alla fucilazione.
Veniva punito con la fucilazione (o con i lavori forzati a vita, concorrendo circostanze attenuanti) chiunque avesse opposto resistenza armata all’arresto, mentre coloro che non si opponevano all’arresto potevano essere puniti con i lavori forzati a vita o con i lavori forzati a tempo (concorrendo circostanze attenuanti), salvo, però, maggiori pene, applicabili nel caso in cui costoro fossero stati riconosciuti colpevoli di altri reati. Coloro che prestavano aiuti e sostegno di qualsiasi genere ai briganti potevano essere, invece, puniti con i lavori forzati a tempo o con la detenzione (concorrendo circostanze attenuanti). Veniva punito con la deportazione chiunque si fosse unito, anche momentaneamente, ai gruppi qualificati come bande brigantesche. Erano, invece, previste delle attenuanti per coloro i quali si fossero presentati spontaneamente alle autorità. Veniva, infine, introdotto anche il reato di eccitamento al brigantaggio.

La legge prevedeva, inoltre, la condanna al domicilio coatto per i vagabondi, le persone senza occupazione fissa, i sospetti manutengoli, camorristi e fiancheggiatori, fino ad un anno di reclusione.
Nelle province definite “infette”, venivano istituiti i Consigli inquisitori (i cui componenti erano il Prefetto, il Presidente del Tribunale, il Procuratore del Re e due cittadini della Deputazione Provinciale) che avevano il compito di stendere delle liste con i nominativi dei briganti individuando così i sospetti che potevano essere messi in stato d’arresto o, in caso di resistenza, uccisi: l’iscrizione nella lista, infatti, costituiva di per sé prova d’accusa. In sostanza, veniva introdotto il criterio del sospetto: in base ad esso, però, chiunque avrebbe potuto avanzare accuse, anche senza fondamento, anche per consumare una vendetta privata.
La legge, inoltre, aveva effetto retroattivo: in altre parole, era possibile applicare la legge Pica anche per reati contestati in epoca antecedente la promulgazione della legge stessa.
Attraverso le successive modificazioni, la legge Pica fu estesa anche alla Sicilia, pur essendo assente sull’isola il grande brigantaggio legittimista che caratterizzava le province napoletane. In particolare, l’obiettivo del governo era combattere il fenomeno della renitenza alla leva militare: divennero, infatti, perseguibili i renitenti, i loro parenti e, persino, i loro concittadini (attraverso l’occupazione militare di città e paesi). Alla sospensione dei diritti costituzionali, dunque, si accompagnavano misure come la punizione collettiva per i reati dei singoli e il diritto di rappresaglia contro i villaggi: veniva introdotto il concetto di “responsabilità collettiva”.

Contesto sociale e politico
Già durante la fase di discussione, fu avanzata l’ipotesi che la proposta del Pica avrebbe potuto dare adito ad errori ed arbitri di ogni sorta: il senatore Ubaldino Peruzzi, infatti, notò come il provvedimento fosse «la negazione di ogni libertà politica». Al pugno di ferro prospettato dalla Destra storica, il Senatore Luigi Federico Menabrea rispose, invece, con una proposta totalmente alternativa. Il Menabrea, come soluzione al malcontento popolare e alle insurrezioni che seguirono l’annessione delle Due Sicilie al Regno d’Italia, propose di stanziare 20 milioni di lire per la realizzazione di opere pubbliche al Sud. Il piano del Menabrea, però, non ebbe alcun seguito, poiché il parlamento italiano preferì investire nell’impiego delle forze armate. In generale, infatti, la lotta al Brigantaggio, impegnò un significativo “contingente di pacificazione”: inizialmente esso constava di centoventimila unità, quasi la metà dell’allora esercito unitario, poi scese, negli anni successivi, prima, a novantamila uomini e, poi, a cinquantamila.
Dunque, nonostante le criticità del provvedimento legislativo fossero state apertamente denunciate, la legge fu ugualmente approvata, ma già dai suoi stessi contemporanei furono riconosciuti gli abusi e le iniquità a cui essa diede adito. In sostanza, la legge Pica non faceva alcuna distinzione tra briganti, assassini, contadini, manutengoli, complici veri o presunti. A tal proposito, nel 1864, Vincenzo Padula scriveva:

 «Il brigantaggio è un gran male, ma male più grande è la sua repressione. Il tempo che si dà la caccia ai briganti è una vera pasqua per gli ufficiali, civili e militari; e l’immoralità dei mezzi, onde quella caccia deve governarsi per necessità, ha corrotto e imbruttito. Si arrestano le famiglie dei briganti, ed i più lontani congiunti; e le madri, le spose, le sorelle e le figlie loro, servono a saziare la libidine, ora di chi comanda, ora di chi esegue quegli arresti».

La legge Pica, fra fucilazioni, morti in combattimento ed arresti, eliminò da paesi e campagne circa 14.000 briganti o presunti tali[23]: per effetto della legge 1409/1863 e del complesso normativo ad essa connesso, fino a tutto il dicembre 1865, si ebbero 12.000 tra arrestati e deportati, mentre furono 2.218 i condannati. Nel solo 1865, furono 55 le condanne a morte, 83 ai lavori forzati a vita, 576 quelle ai lavori forzati a tempo e 306 quelle alla reclusione ordinaria. Nonostante tale rigore, la legge Pica non riuscì a portare i risultati che il governo si era prefissi: l’attività insurrezionale e il brigantaggio, infatti, perdurarono negli anni successivi al 1865, protraendosi fino al 1870.

CONCLUSIONE

L’agosto 1863 un proclama di Vittorio Emanuele venne affisso in tutte le città, paesi, borgate del Mezzogiorno. Era la legge Pica contro il “brigantaggio”. Praticamente l’autorità militare assumeva il governo delle province meridionali. La repressione diventava, a questo punto, ancora piu’ acre e feroce di quanto non fosse stata fin allora. La legge Pica rimase in vigore fino al 31 dicembre 1865. Fu presentata come “mezzo eccezionale e temporaneo di difesa” e, dall’opposizione parlamentare di sinistra valutata e combattuta come una violazione dell’art. 71 dello Statuto del Regno poiché il cittadino “veniva distolto dai suoi giudici naturali” per essere sottoposto alla giurisdizione dei Tribunali Militari e alle procedure del Codice Penale Militare. La legge passò comunque a larga maggioranza. La ribellione doveva essere stroncata “col ferro e col fuoco!”. Per effetto della legge Pica, a tutto il 31 dicembre 1865, furono 12.000 gli arrestati e deportati, 2.218 i condannati. Nel solo 1865 le condanne a morte furono 55, ai lavori forzati a vita 83, ai lavori forzati per periodi più o meno lunghi 576, alla reclusione ordinaria 306. Le carceri erano piene, fitte, zeppe fino all’inverosimile

Fonte: Perlacalabria.wordpress.com
.

GIORNO DELLA MEMORIA, PERCHE' E' DOVEROSO E UTILE RICORDARE.





Di Natale Cuccurese

Anche questo 27 Gennaio, come da qualche anno a questa parte, è ricordato l'olocausto del Popolo Ebraico avvenuto ad opera delle orde nazifasciste nel corso dell'ultimo conflitto mondiale.

E' di poche ore fa a Napoli la bella iniziativa ad opera del Sindaco di Napoli, a cui ha partecipato Andrea Balia a nome del Partito del Sud, per ricordare il piccolo Sergio de Simone( nella fotoun bambino napoletano ebreo , massacrato insieme ad altre creature innocenti come lui nel campo di Auschwitz dal dottor Mengele.

Basta ricordare questi nomi vedere in fotografia questi volti, per capire quanto questa giornata sia opportuna per una doverosa ed adeguata riflessione affinchè queste mostruosità non si ripetano, in un periodo in cui si vedono tornare alla luce pulsioni razziste verso altri popoli, altre etnie, altre razze, altre religioni. "Quando però si arriva a questa data c'è sempre qualcuno che tira fuori il si però ci sono stati altri massacri e genocidi nella storia". E' purtroppo vero. Ma se lo facciamo in questa giornata sembra quasi che le cose vadano in contrapposizione. Qualsiasi genocidio è un crimine verso l'umanità che non prevede alcun tipo di giustificazione. Oggi ricordiamoci di quello subito dagli ebrei senza se e senza ma..."come dice Michele Dell'Edera in un suo bel pensiero odierno.

Nel 2009 infatti il Partito del Sud propose, per ricordare l'olocausto del popolo Duosiciliano, la giornata del 13 febbraio, caduta della fortezza di Gaeta nell'assedio del 1860/61, per una nostra giornata della memoria.Giornata quanto mai necessaria alla luce di quanto accadde e direi accade ancora oggi purtroppo, certo  in forma diversa, se pensiamo al dramma della "Terra dei Fuochi", consapevoli che ogni caso ha le sue specificità ma anche certi che ogni vittima abbia uguale diritto al ricordo e ad una pari dignità.

Credo poi sia utile ricordare l'olocausto del popolo ebraico anche per richiamare la nostra infima classe politica all'assurdità evidente che quel re che firmò le leggi razziali in Italia nel 1938, e che permise pertanto la deportazione verso il genocidio degli ebrei italiani, è quel Vittorio Emanuele III che ancora oggi ha vergognosamente intitolate in Italia vie, piazze, monumenti.
Una contraddizione atroce che fa capire quanta strada ci sia ancora da fare in Italia nei confronti di un disvelamento storico che possa portare alla luce le contraddizioni degli ultimi 153 anni e la vergogna di una classe politica che non solo non ha fatto i conti con la storia ma addirittura fa il percorso del gambero, se pensiamo all'omaggio alle tombe di casa savoia fatto dal presidente Napolitano al Pantheon il 17 marzo 2011.

Ben venga pertanto questa giornata della memoria, nell'auspicio che possa servire non solo a far riflettere , come doveroso, ma anche a favorire una rilettura storica che faccia ben comprendere alle nuove generazioni chi sono i falsi eroi, ancora oscenamente celebrati, e chi i martiri, affinchè quel che accadde non si ripeta mai più per nessun popolo.

domenica 19 gennaio 2014

Tesseramento 2014


La campagna di adesione al PdSUD riprende con il tesseramento 2014 da gennaio 2014.

E' possibile aderire on line o tramite sezione o referente territoriale.

On line, scaricando e compilando la "Domanda di Tesseramento 2014" presente nella sezione "Documenti" e pagando la quota sociale stabilita per il 2014 (10 Euro quota ridotta solo per Disoccupati, Studenti, Casalinghe e Pensionati; 20 Euro per Soci Ordinari; 50 Euro per Soci Sostenitori).
  
Per le adesioni on line è necessario:
  • inviare il modulo di adesione compilato e scannerizzato via mail apartitodelsud.roma@gmail.com
  • effettuare il pagamento della quota tramite paypal su questo sito (sezione "Donazioni") oppure tramite un bonifico al nostro conto nazionale: intestato a Filippo Romeo (Tesoriere PdSUD)
     coordinate IBAN: IT11G0760111800001015934605
Per le adesioni tramite le nostre sezioni locali, la consegna della domanda di adesione ed il pagamento della quota può essere fatto rivolgendosi ai nostri presidi sul territorio.


martedì 7 gennaio 2014

Mestre, cambia il nome di piazzale Cialdini Il militare e politico del Risorgimento ordinò eccidi nel Sud, non merita lo spazio del futuro interscambio del tram

di Mitia Chiarin

MESTRE. Sparirà il nome del generale Enrico Cialdini dal piazzale che per anni è stato un anonimo crocevia tra via Colombo, viale San Marco e via San Pio X e che oggi è noto non solo per la sua incasinata segnaletica, ma per la sua futura destinazione, tra marzo e settembre di quest’anno, di interscambio delle linee del tram per Marghera e Venezia e capolinea dei bus extraurbani.

Ed è proprio la prossima rivoluzione legata al tram ad aver dato l’occasione al consiglio comunale veneziano per decidere di cambiare nome al piazzale, togliendo dalla toponomastica mestrina ogni riferimento al generale Cialdini. L’intitolazione del piazzale a questo personaggio del Risorgimento ( nato nel 1811 e morto nel 1892 a Livorno) risale al 1966 quando sindaco era il democristiano Giovanni Favaretto Fisca. La delibera conteneva 18 intitolazioni di strade per la Mestre che allora cresceva in fretta, senza motivazioni.

Ora il nome di Cialdini sparirà, come chiede la mozione approvata dal consiglio lo scorso 17 dicembre (25 voti favorevoli, un solo non votante, per la cronaca il leghista Giovanni Giusto) su proposta di Sebastiano Bonzio (Federazione della sinistra)che ha chiesto di togliere dallo stradario mestrino ogni riferimento al generale che non sarebbe solo un militare e uomo politico, come riportano i libri di storia, ma fu personaggio controverso, protagonista della durissima repressione tra Benevento e Gaeta, nel 1861, della campagna contro il brigantaggio. Azioni militari per conto del regno di Torino fatte di eccidi, come quello di Casalduni e Pontelandolfo, case incendiata e centinaia di persone uccise. Oggi in internet ci sono video di gruppi meridionalisti che parlano di Cialdini come di un “massacratore”.

«Enrico Cialdini è indicato anche dai più benevoli come un criminale di guerra, eppure a lui sono state intitolate numerose strade in molte città in Italia, tra cui Mestre», spiega Bonzio, «io sono contro la mistificazione storica e la retorica risorgimentale, e volevo ripristinare una condizione di verità sul reale ruolo esercitato da talune personalità a cui sono intitolati spazi pubblici». La maggioranza di centrosinistra lo ha appoggiato. «Abbiamo votato a tarda ora ed è bastato un veloce controllo su internet per comprendere le ragioni di Bonzio. Io di Cialdini sapevo ben poco», ammette Claudio Borghello, capogruppo del Partito Democratico.

La mozione, approvata prima di Natale, spalanca una porta già aperta. «Ne avevamo parlato in giunta alcuni mesi fa su segnalazione dell’assessore Tiziana Agostini», racconta il vicesindaco Sandro Simionato, «Lei ha sollevato il problema invitando a ragionare su altri nomi da dare al piazzale che sta per ospitare l’interscambio del tram». Un esempio? Simionato dice: «Si è fatto il nome di Eugenio Miozzi, ingegnere e capo della Direzione Lavori e Servizi Pubblici del Comune di Venezia dal 1931 e a capo, nel ventennio successivo, di numerosi interventi che hanno cambiato il volto della città. Un nome che si lega al tema della mobilità. Molto presto interverremo». In Comune, la Agostini, (che in questi giorni è all’estero) avrebbe già invitato i suoi uffici a lavorare per il cambio di nome del piazzale. L’intenzione è quella di fare veloci, per legare il cambio di indicazione su cartelli e indirizzi dei residenti della zona con l’entrata in funzione del nuovo interscambio del tram. Per il piazzale dietro Coin il destino del cambio di nome è segnato, come lo è stato per piazzale Donatori di Sangue, piazza Barche e piazzale Michelangelo, oggi Candiani.

Lo storico mestrino Sergio Barizza commenta: «Anche Bixio fu autore di un massacro a Bronte, e il suo nome c’è su una rotatoria. Il primo problema è che la storia la scrivono i vincitori, il secondo è l’ignoranza dilagante che fa dimenticare la nostra storia».

Fonte: la Nuova di Venezia

venerdì 3 gennaio 2014

ANGELINA ROMANO: giustiziata a 9 anni con l'accusa di brigantaggio.

Sono passati più di 150 anni da quel triste 3 gennaio del 1862, giorno in cui fu fucilata la piccola Angelina Romano, età anagrafica "anni 9", colpevole del solo fatto di aver assistitito alla fucilazione di 6 tra contadini e Parroco del paese, Don Benedetto Palermo di 43 anni, gli altri furono Mariano Crociata di 30 anni, Marco Randisi di 45, Anna Catalano di 50, Antonio Corona di 70 e Angelo Calamia di 70, tutti sorpresi dai Bersaglieri in contrada Falconiera, nei pressi di Castellammare del Golfo, in provincia di Trapani, ove si eano rifugiati per paura. I miltari furono inviati da Palermo, con a capo il Generale Quintini e l'appoggio di due navi da guerra, l'indomani della sommossa popolare contro la Legge Marziale e la Dichiarazione dello Stato d'Assedio, proclamata il 30 giugno 1861, dall'inviato dal Governo Sabuado Piemontese, Generale Covone, che introduceva anche la Leva Obbligatoria, sconosciuta sotto il Regno Borbonico ( 7 anni). Il 2 gennaio 1862, 450 giovani siciliani assaltarono la sede del Commissariato di Leva , allora era Commissario Bartolomeo Asaro, e dentro trovarono anche il Comandante della Guardia Nazionale, Francesco Borroso. All'arrivo del battaglione di Bersaglieri, inviato dal capoluogo Palermo, i giovani si dileguarono tutti nelle campagne e sulle pendici dei monti circostanti, ma i militari trovarono rifugiati in un casolare di Falconiera, i sopracitati 6, che in virtù dei poteri dovuti ala proclamazione dello Stato di Assedio, furono tutti passati per le armi, prete compreso. Però alla fine dell'esecuzione furono sentiti i pianti di una bimba che aveva assistito alla fucilazione e che fu messa subito al muro, ancora con la faccina bagnata dal pianto e "giustiziata"; nell'archivio militare si legge " Castellammare del Golfo, 3 gennaio 1862, Romano Angelina di anni 9, fucilata, accusata di Brigantaggio". Questo breve post vuole essere un omaggio ad una bambina innocente e rimarcare un atto feroce ed inutile, compreso l'ascolto di alcuni brani dedicati al periodo tramandato, ma fino ad ora in maniera distorta, del "Brigantaggio al Sud", ed anche il ricordo della giovane Michelina di Cesare, massacrata in quegli anni, ed anche alla Questione Meridoniale.

Oggi 152 anni dopo Angelina Romano viene ricordata a Longobardi grazie al Consigliere comunale di minoranza Franco Gaudio del Partito del Sud, ed al sindaco Giacinto Mannarino.


giovedì 2 gennaio 2014

Processo Marlane, Comitato Bonifiche terreni: Marzotto compra tutto, non il nostro silenzio sui fanghi tossici.

I Riceviamo da Giorgio Langella  un comunicato del "Comitato per le bonifiche dei terreni, dei mari e dei fiumi della Calabria", il cui Presidente è Giovanni Moccia, e lo pubblichiamo 

Da"Scirocco, la controniformazione che fa informazione"

Il conte Marzotto dopo aver incassato il ritiro di tutte le parti civili elargendo un'elemosina natalizia ai familiari delle vittime, ma nel contempo, pagando, ha ammesso le sue colpe e quelle della sua azienda, ora vorrebbe il silenzio assoluto sui rifiuti tossici seppelliti all'interno della fabbrica.

Vorrebbe il silenzio degli operai, dei familiari delle vittime e anche degli avvocati. Non vorrebbe che si parlasse dei rifiuti tossici che sono nella Marlane , sotterrati da decenni e che continuano ad inquinare falde acquifere, mare ed aria in tutta Praia a e Tortora.
Nell'ultima udienza l'avvocato Mangia , difensore della Marzotto spa, ha chiesto l'acquisizione di un'intervista che l'avv. Conte , delle parti civili e del comune di Tortora ha rilasciato alla trasmissione di Rai Tre Report. Il presidente Introcaso ha rigettato la richiesta. Ma non si è ben capito cosa volesse, dimostrare con la sua richiesta l'avv.Mangia .
La difesa di Marzotto, forse, vorrebbe dimostrare l'indimostrabile e vorrebbe che tutti stessimo zitti a cominciare dall'avv.Conte e dagli operai e familiari che hanno visto decimate le proprie famiglie. L'avv. Mangia e con lui il Conte Marzotto dimenticano le testimonianze di operai che si sono autodenunciati nel rilevare il ruolo da essi stessi svolto negli anni della gestione sia dell'Eni che della Marzotto. Basterebbe rileggersi la testimonianza di Cicero, operaio incaricato della pulizia dei fanghi del depuratore della fabbrica. Nella testimonianza resa davanti al presidente Introcaso, Cicero ha dichiarato che spesso i fanghi venivano sepolti nei terreni della fabbrica oltre che scaricati a mare. E anche l'operaio De Francesco ha dichiarato le stesse identiche cose. Ma su tutto c'è la terribile dichiarazione fatta da Francesco De Palma, attraverso una video intervista e consegnata dagli ambientalisti al Pm Lauri. Perchè non viene trasmessa quell'intervista all'interno del tribunale per fugare ogni dubbio su cosa ci sia in quei terreni?
Noi non ci fermiamo e non ci arrendiamo e continueremo la nostra lotta per giungere finalmente alla verità ed ottenere giustizia per tutti anche per quelli che non hanno avuto il coraggio di costituirsi parte civile.
Anzi lavoriamo per costituire un nuovo gruppo di familiari che si costituisca parte civile in sede del processo civile.
Per tutto questo venerdì 3 gennaio alle ore 8,30 saremo di fronte il tribunale di Paola per un sit in di appoggio al processo per velocizzarne le udienze con una calendarizzazione nuova.

Fonte VicenzaPiù