Secondo il re sabaudo Vittorio Emanuele II dall’Italia meridionale si “alzava un grido di dolore” che lui, notoriamente di buon cuore e generoso, non poteva non ascoltare. E così mandò avanti Garibaldi con i suoi Mille improbabili liberatori che, a suo avviso, sarebbero bastati per accendere il fuoco della ribellione al tiranno Borbone.
Ed in effetti all’inizio fu così, e molti cittadini di idee liberali accolsero Garibaldi come un angelo liberatore, mentre molti ufficiali dell’esercito borbonico, precedentemente comprati dall’opera di intelligence posta in essere segretamente da Cavour, facevano in modo che i soldati di re Francesco II non ostacolassero in alcun modo l’invasione e gli insorti.
Bastarono poche settimane per far comprendere ai liberali ed al popolo meridionale che Garibaldi non veniva a portare la libertà, ma semplicemente a sostituire un re con un altro re. Ma ormai era troppo tardi, perchè a consolidare la conquista del Regno delle Due Sicilie erano già arrivati i bersaglieri ed i fanti dell’esercito piemontese, che prima sparavano e poi controllavano chi avessero davanti, fossero anche donne, bambini o vecchi inermi.
Per la retorica risorgimentale i “fratelli d’Italia” ci abbracciavano per liberarci dal medioevo borbonico. Francamente già posta in questi termini sembrerebbe più un’amara barzelletta che altro, visto che per mille versi il Regno delle Due Sicilie era almeno vent’anni avanti rispetto al resto d’Italia, Piemonte compreso.
E questo era ed è sotto gli occhi di tutti. Basta guardare le pubblicazioni del tempo ed i documenti originali, e non i libri falsificati dalla retorica risorgimentale.
Ma a volte, proprio per evitare che appaia un racconto di parte, è addirittura sufficiente mostrare I FATTI, oppure ciò che scrivono e dicono testi che non possono certamente essere definiti “filo-meridionalisti”.
I FATTI
Nel 1863, dopo già ben due anni erano passati di presunti “baci ed abbracci” con i meridionali liberati, il clima era talmente “idilliaco” qui al Sud che il governo neo-italiano ha dovuto far promulgare al re sabaudo lo stato d’assedio per le regioni meridionali, autorizzando così la sospensione delle leggi civili ed il passaggio al codice penale di guerra.
Si promulga così la cosiddetta “Legge Pica“, dal nome del deputato abrujzzese che la formulò, che per oltre due anni trasformò le regioni meridionali in un immenso campo di combattimento, o meglio ancora in un enorme lager dentro il quale i soldati del re sabaudo, i “piemontesi”, con la scusa della lotta al brigantaggio uccisero, stuprarono, squartarono, sgozzarono, misero a ferro e fuoco interi paesi causando migliaia e migliaia di morti innocenti.
E ci vollero ben ancora almeno sette anni per piegare definitivamente tutte le sacche di resistenza dei partigiani lealisti al re Borbone sulle montagne abruzzesi, lucane, campane, pugliesi, calabresi, e siciliane.
Basterebbe questo per capire l’enorme montagna di menzogne che ha accompagnato per 150 anni la storia del risorgimento italiano.
Altro che “fratelli d’Italia”…
Poi ci testimonianze – involontarie – che veramente sono al di sopra di ogni sospetto, come ad esempio quelle tratte dal sito dell’Arma dei Carabinieri, “fedelissima” per definizione al re savoia.
Ecco cosa si legge nel sito ufficiale dell’Arma:
“La legge Pica permise la repressione senza limiti di qualunque resistenza: si trattava, in pratica, dell’applicazione dello stato d’assedio interno. Senza bisogno di un processo si potevano mettere per un anno agli arresti domiciliari i vagabondi, le persone senza occupazione fissa, i sospetti fiancheggiatori di camorristi e briganti. Nelle province dichiarate infestate da briganti ogni banda armata di più di tre persone, complici inclusi, poteva essere giudicata da una corte marziale. Naturalmente alla sospensione dei diritti costituzionali (il concetto di diritti umani di fatto ancora non esisteva) si accompagnarono misure come la punizione collettiva per i delitti dei singoli e le rappresaglie contro i villaggi“.
Non c’è bisogno di alcun commento, mi pare.
“La legge 1409 del 1863, nota come legge Pica, dal nome del suo promotore, il deputato abruzzese Giuseppe Pica, fu approvata dal parlamento della Destra storica e fu promulgata da Vittorio Emanuele II, il 15 agosto di quell’anno. Presentata come “mezzo eccezionale e temporaneo di difesa”, la legge fu più volte prorogata ed integrata da successive modificazioni, rimanendo in vigore fino al 31 dicembre 1865. Sua finalità primaria era porre rimedio al brigantaggio postunitario nel Mezzogiorno, attraverso la repressione di qualunque fenomeno di resistenza.
Contesto preesitente
Il provvedimento legislativo seguiva, di circa dodici mesi, la proclamazione, da parte del governo, dello stato d’assedio nelle province meridionali, avvenuta nell’estate del 1862. Con lo stato d’assedio si era voluto concentrare il potere nelle mani dell’autorità militare al fine di reprimere l’attività di resistenza armata: coloro i quali venivano catturati con l’accusa di brigantaggio, fossero essi sospettati di essere ribelli o parenti di ribelli, potevano essere passati per le armi dall’esercito, senza formalità di alcun genere.
Nella seduta parlamentare del 29 aprile 1862, il senatore Giuseppe Ferrari affermava: «Non potete negare che intere famiglie vengono arrestate senza il minimo pretesto; che vi sono, in quelle province, degli uomini assolti dai giudici e che sono ancora in carcere. Si è introdotta una nuova legge in base alla quale ogni uomo preso con le armi in pugno viene fucilato. Questa si chiama guerra barbarica, guerra senza quartiere. Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue, non so più come esprimermi».
Per contro, coloro che riuscivano ad evitare il plotone di esecuzione non potevano più essere processati dai tribunali militari e divenivano soggetti alla giustizia ordinaria, che, in base alle variazioni apportate, nel 1859, al codice penale piemontese, non prevedeva più l’applicazione della pena di morte per i reati politici[5]. La legge Pica, dunque, sospendendo, in sostanza, la garanzia dei diritti costituzionali contemplati dallo statuto Albertino, aveva l’obiettivo di colmare questo “vuoto”, sottraendo i sospettati di brigantaggio ai tribunali civili in favore di quelli militari.
Brigantaggio e camorrismo
La legge Pica, il cui titolo era Procedura per la repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle Provincie infette, si attesta come la prima disposizione normativa dello stato unitario in cui viene contemplato il reato di camorrismo[6]. Oltre ad introdurre il reato di brigantaggio, infatti, la legge 1409/1863, disciplinò in tema di ordine pubblico riferendosi anche alle azioni delittuose commesse della nascente criminalità organizzata. Inoltre, la legge Pica introdusse, per la prima volta, la pena del domicilio coatto, ponendosi, per questi due aspetti, come antesignana dell’ampia produzione normativa connessa ai reati di mafia che caratterizzerà il XX secolo. Legiferando, però, su proto-mafie e brigantaggio attraverso un’unica norma, il parlamento italiano accostava impropriamente il mero banditismo all’attività di brigantaggio politico propria della resistenza partigiana antiunitaria e legittimista.
Le disposizioni normative
In applicazione della legge Pica, dunque, venivano istituiti sul territorio delle province definite come “infestate dal brigantaggio” (individuate dal Regio decreto del 20 agosto 1863) i tribunali militari, ai quali passava la competenza in materia di reati di brigantaggio.
Il nuovo corpo normativo stabiliva che poteva essere qualificato come brigante (e, dunque, giudicato dalla corte marziale) chiunque fosse stato trovato armato in un gruppo di almeno tre persone.
Veniva concessa la facoltà di istituire delle milizie volontarie per la caccia ai briganti ed erano stabiliti dei premi in danaro per ogni brigante arrestato o ucciso.
Le pene comminate ai condannati andavano dall’incarcerazione, ai lavori forzati, alla fucilazione.
Veniva punito con la fucilazione (o con i lavori forzati a vita, concorrendo circostanze attenuanti) chiunque avesse opposto resistenza armata all’arresto, mentre coloro che non si opponevano all’arresto potevano essere puniti con i lavori forzati a vita o con i lavori forzati a tempo (concorrendo circostanze attenuanti), salvo, però, maggiori pene, applicabili nel caso in cui costoro fossero stati riconosciuti colpevoli di altri reati. Coloro che prestavano aiuti e sostegno di qualsiasi genere ai briganti potevano essere, invece, puniti con i lavori forzati a tempo o con la detenzione (concorrendo circostanze attenuanti). Veniva punito con la deportazione chiunque si fosse unito, anche momentaneamente, ai gruppi qualificati come bande brigantesche. Erano, invece, previste delle attenuanti per coloro i quali si fossero presentati spontaneamente alle autorità. Veniva, infine, introdotto anche il reato di eccitamento al brigantaggio.
La legge prevedeva, inoltre, la condanna al domicilio coatto per i vagabondi, le persone senza occupazione fissa, i sospetti manutengoli, camorristi e fiancheggiatori, fino ad un anno di reclusione.
Nelle province definite “infette”, venivano istituiti i Consigli inquisitori (i cui componenti erano il Prefetto, il Presidente del Tribunale, il Procuratore del Re e due cittadini della Deputazione Provinciale) che avevano il compito di stendere delle liste con i nominativi dei briganti individuando così i sospetti che potevano essere messi in stato d’arresto o, in caso di resistenza, uccisi: l’iscrizione nella lista, infatti, costituiva di per sé prova d’accusa. In sostanza, veniva introdotto il criterio del sospetto: in base ad esso, però, chiunque avrebbe potuto avanzare accuse, anche senza fondamento, anche per consumare una vendetta privata.
La legge, inoltre, aveva effetto retroattivo: in altre parole, era possibile applicare la legge Pica anche per reati contestati in epoca antecedente la promulgazione della legge stessa.
Attraverso le successive modificazioni, la legge Pica fu estesa anche alla Sicilia, pur essendo assente sull’isola il grande brigantaggio legittimista che caratterizzava le province napoletane. In particolare, l’obiettivo del governo era combattere il fenomeno della renitenza alla leva militare: divennero, infatti, perseguibili i renitenti, i loro parenti e, persino, i loro concittadini (attraverso l’occupazione militare di città e paesi). Alla sospensione dei diritti costituzionali, dunque, si accompagnavano misure come la punizione collettiva per i reati dei singoli e il diritto di rappresaglia contro i villaggi: veniva introdotto il concetto di “responsabilità collettiva”.
Contesto sociale e politico
Già durante la fase di discussione, fu avanzata l’ipotesi che la proposta del Pica avrebbe potuto dare adito ad errori ed arbitri di ogni sorta: il senatore Ubaldino Peruzzi, infatti, notò come il provvedimento fosse «la negazione di ogni libertà politica». Al pugno di ferro prospettato dalla Destra storica, il Senatore Luigi Federico Menabrea rispose, invece, con una proposta totalmente alternativa. Il Menabrea, come soluzione al malcontento popolare e alle insurrezioni che seguirono l’annessione delle Due Sicilie al Regno d’Italia, propose di stanziare 20 milioni di lire per la realizzazione di opere pubbliche al Sud. Il piano del Menabrea, però, non ebbe alcun seguito, poiché il parlamento italiano preferì investire nell’impiego delle forze armate. In generale, infatti, la lotta al Brigantaggio, impegnò un significativo “contingente di pacificazione”: inizialmente esso constava di centoventimila unità, quasi la metà dell’allora esercito unitario, poi scese, negli anni successivi, prima, a novantamila uomini e, poi, a cinquantamila.
Dunque, nonostante le criticità del provvedimento legislativo fossero state apertamente denunciate, la legge fu ugualmente approvata, ma già dai suoi stessi contemporanei furono riconosciuti gli abusi e le iniquità a cui essa diede adito. In sostanza, la legge Pica non faceva alcuna distinzione tra briganti, assassini, contadini, manutengoli, complici veri o presunti. A tal proposito, nel 1864, Vincenzo Padula scriveva:
«Il brigantaggio è un gran male, ma male più grande è la sua repressione. Il tempo che si dà la caccia ai briganti è una vera pasqua per gli ufficiali, civili e militari; e l’immoralità dei mezzi, onde quella caccia deve governarsi per necessità, ha corrotto e imbruttito. Si arrestano le famiglie dei briganti, ed i più lontani congiunti; e le madri, le spose, le sorelle e le figlie loro, servono a saziare la libidine, ora di chi comanda, ora di chi esegue quegli arresti».
La legge Pica, fra fucilazioni, morti in combattimento ed arresti, eliminò da paesi e campagne circa 14.000 briganti o presunti tali[23]: per effetto della legge 1409/1863 e del complesso normativo ad essa connesso, fino a tutto il dicembre 1865, si ebbero 12.000 tra arrestati e deportati, mentre furono 2.218 i condannati. Nel solo 1865, furono 55 le condanne a morte, 83 ai lavori forzati a vita, 576 quelle ai lavori forzati a tempo e 306 quelle alla reclusione ordinaria. Nonostante tale rigore, la legge Pica non riuscì a portare i risultati che il governo si era prefissi: l’attività insurrezionale e il brigantaggio, infatti, perdurarono negli anni successivi al 1865, protraendosi fino al 1870.
CONCLUSIONE
“L’agosto 1863 un proclama di Vittorio Emanuele venne affisso in tutte le città, paesi, borgate del Mezzogiorno. Era la legge Pica contro il “brigantaggio”. Praticamente l’autorità militare assumeva il governo delle province meridionali. La repressione diventava, a questo punto, ancora piu’ acre e feroce di quanto non fosse stata fin allora. La legge Pica rimase in vigore fino al 31 dicembre 1865. Fu presentata come “mezzo eccezionale e temporaneo di difesa” e, dall’opposizione parlamentare di sinistra valutata e combattuta come una violazione dell’art. 71 dello Statuto del Regno poiché il cittadino “veniva distolto dai suoi giudici naturali” per essere sottoposto alla giurisdizione dei Tribunali Militari e alle procedure del Codice Penale Militare. La legge passò comunque a larga maggioranza. La ribellione doveva essere stroncata “col ferro e col fuoco!”. Per effetto della legge Pica, a tutto il 31 dicembre 1865, furono 12.000 gli arrestati e deportati, 2.218 i condannati. Nel solo 1865 le condanne a morte furono 55, ai lavori forzati a vita 83, ai lavori forzati per periodi più o meno lunghi 576, alla reclusione ordinaria 306. Le carceri erano piene, fitte, zeppe fino all’inverosimile“
Fonte: Perlacalabria.wordpress.com
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